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a cura di Francesca Duranti

Si usano gli specchi per guardarsi il viso, e si usa l’arte per guardarsi l’anima.

(George Bernard Shaw)

 

Ognuno di noi possiede uno slancio creativo, un’espressione unica, che merita di essere esplorata e valorizzata come una risorsa preziosa per la propria evoluzione, un rituale per creare la propria vita, un viaggio nel cuore dei sensi, quasi un’esperienza di iniziazione, un risveglio attraverso il piacere della materia, del movimento e della trasformazione. Questo è il linguaggio di Tata (Cristina Sensi), uno pseudonimo che dietro di se nasconde l’essenza del titolo di questa mostra, "Il mio occhio è più colmo del mio vaso", una frase di Emily Dickinson, un inno alla sensibilità dello sguardo, in rapporto al cuore che è pieno di affettività, ma anche sofferenza nascosta di un vaso che si colma.

Da sempre legata alla pittura che ha lasciato e ripreso nel corso del tempo, da circa dieci anni lavora costantemente usandola come rifugio, ma anche come punto di conquista della realtà. La superficie delle sue opere non fruisce mai di una certezza formale, ma è soprattutto luogo di avventura mentale e della sensibilità. Arte come opera della vita, dove dare alla propria creatività tutta la forza morale, la finalità, l'equilibrio intellettuale e l'autenticità con cui si dovrebbe giustificare una presenza umana nel mondo e nella società. Il suo è un polimaterismo astratto che ha però un concreto rapporto con la realtà, dove la tavolozza viene riempita da  elementi extrapittorici, una materia applicata, quindi, e sovrapposta alla pittura, secondo quel radicale concetto del sostituire, totalmente e integralmente la realtà dipinta, con la realtà della materia. Il colore per lei è sempre un concreto punto di riferimento della struttura formale, non è mai pieno, denso, debordante, ma solo una nota che richiama l'aggregazione dell'insieme. Un colore tendenzialmente monocromatico, che non si spinge mai oltre la scala delle terre, dei neutri o del nero, accennando solo alcuni brani di rosso o di blu all’interno della costruzione segnica, ma capace di accendere i limiti della conoscenza visiva e della sensibilità. L'uso costante di mezzi poveri per dilatare l'immagine, per costruire la struttura di una nuova e più semplice possibilità di immaginare attraverso il campo percettivo, è senza dubbio un aspetto non ultimo del suo modo di fare arte. Nell’opera Musica nel cuore si nota una  continua espansione nella superficie della tela, che si avvale di un elemento iconografico ricorrente, come la linea della vibrazione, o meglio di una traccia quasi musicale, di tipo dodecafonico, con pause e silenzi, tonalità essenziali, rarefatte, aspre e dissonanti.

La Mia fata ignorante, trittico polimaterico di grande impatto emotivo  non cerca di riprodurre lo spazio della rappresentazione, lo costruisce in termini reali e concreti, ne fa il luogo deputato ad accogliere interazioni eterogenee tra materiali non omogenei, ceramica, corda, oggetti d'uso comune, elementi più disparati  incongrui e strumentali, a suggerire l'idea di una spazialità intrinseca all'opera, di uno spazio nel quadro e non di un quadro nello spazio. La sua peculiare povertà nell'uso dei mezzi espressivi è la più ricca manifestazione di creatività che Cristina può  darci.

Il fatto di non essere mai ripetitiva, ma di cercare in ogni opera, una ragione sempre nuova dell'operare artistico, ci fa pensare che in fondo, con i mezzi più semplici, è possibile arricchire il mondo della visione e farlo divenire migliore.

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